Carissimo Paolo, è da tanti anni che ci conosciamo. Il destino ci ha voluti fortunatamente vicini di comune nella provincia di Treviso, e grazie a una tua conferenza 25 anni fa a cui era presente mia zia, la mia famiglia ha intuito io avessi qualcosa a che fare con la patologia da deficit del collagene VI.

Raccontaci, in primis, il tuo percorso accademico-formativo.

Quando ero bambino ero affascinato dai libri della mia enciclopedia di casa. Attratto dalla scienza e dalla natura mi sono iscritto a biologia nel 1980 e quando sono entrato in tesi sono stato coinvolto nel gruppo di lavoro del Prof. immunologo Alfonso Colombatti. Interessato alla tecnica innovativa degli anticorpi monoclonali, mi affidò l’incarico di purificare diversi collageni dalla placenta, organo molto ricco di matrice extracellulare.

Nel 1984 per la mia tesi di laurea, mi incaricavo di recuperare le placente delle partorienti in ospedale e portarle in laboratorio. La procedura di isolamento delle proteine della matrice extracellulare era molto complessa, partiva dallo sminuzzare le placente e poi con tanti diversi passaggi di purificazione e estrazione che richiedevano lunghi tempi di lavoro in camera fredda. Fra i diversi collageni, il collagene I è il più abbondante, si trova nelle ossa e nella pelle, è il famoso collagene delle creme di bellezza. Il collagene II sta nelle cartilagini. Poi ci sono il collagene III, IV e V… E poi infine c’era un misterioso collagene, che non era ancora stato ben definito e che sarebbe poi diventato il collagene VI.

Nel 1985 al Prof. Colombatti viene attribuita una posizione di direttore presso il Centro Oncologico di Aviano (PN) e io decido di seguirlo, occupandomi di studiare i vari collageni nel suo dipartimento di Oncologia Sperimentale. A quel tempo il collagene VI non aveva ancora un nome.

I collageni hanno una struttura molto caratteristica chiamata “tripla elica” costituita da tre catene che si avvolgono come in una corda: sono quelle che formano le fibre di collagene nella matrice. A differenza di tutti gli altri collageni, il collagene VI ha una tripla elica molto breve fiancheggiata da regioni molto più ampie che formano delle strutture ripiegate su sé stesse. Le procedure di purificazione che si usavano a quel tempo per i collageni erano basate sull’utilizzo della pepsina, un enzima che degrada le altre proteine ma che non intacca la struttura a tripla elica presente nei diversi collageni. Per questo motivo il collagene VI era stato inizialmente considerato una proteina piccola e presente in basse quantità, quasi un prodotto di degradazione.

Dopo la laurea, grazie all’uso di anticorpi monoclonali riusciamo a studiare il collagene VI nelle cellule e, per la prima volta, capiamo che è molto più grande e in quantità molto più abbondante di quello che si pensava. Fino agli inizi degli anni ‘90 abbiamo studiato le diverse caratteristiche del collagene VI, scoprendo che ha un processo di sintesi intracellulare particolarmente elaborato e complesso, basato sull’assemblaggio di tre differenti catene seguito da una serie di passaggi successivi fino alla sua secrezione e deposizione nella matrice extracellulare.    

Nel 1990 decido di partecipare ad un concorso di ricercatore e mi sposto così all’università di Padova, ma la situazione si presenta faticosa per carenza sia di fondi che di strutture adeguate. Nel 1993 decido di andarmene in Germania al Max Planck Institute con tutta la mia famiglia, la mia bellissima moglie Orsolina e i miei due figli ancora molto piccoli, Stefano e Cinzia. Scelsi un dipartimento dove a quel tempo si stava sviluppando una tecnica pionieristica ed altamente innovativa per studiare le funzioni dei geni nell’intero organismo. Lì imparai la produzione dei topi knockout e capii come si fa a inattivare (“disattivare”) un gene che produce una certa proteina di interesse. Nel 1995 torno in Italia dove immediatamente mi dedico ad applicare queste metodiche innovative per studiare le funzioni del collagene VI nell’intero organismo. Dopo più di un anno di lavoro, nel 1996 riusciamo a raggiungere l’obiettivo finale, con la generazione di topi knockout privi di collagene VI.

L’emozione era forte, perché non sapevamo che fenotipo avrebbero avuto questi topi. Anche se all’apparenza sembravano del tutto normali, ci siamo presto accorti che questi topi presentavano una debolezza muscolare, perché sollevandoli per la coda non riuscivano a girarsi e tenevano le zampe contratte. Ciò ci portò a dedurre che i topi privi di collagene VI erano affetti da una patologia muscolare congenita.   

A quel tempo c’erano un sacco di distrofie orfane delle quali non si sapeva quale fosse il gene mutato responsabile.

Domanda per interromperti. Ma allora fino a quel tempo non ti eri mai relazionato con Telethon?

Io inizio a relazionarmi con Telethon grazie ai topi knockout nel 1997 e infatti ottengo da Telethon il primo finanziamento.

In quegli anni non erano ancora stati identificati pazienti con mutazione del collagene VI. La prima distrofia di cui si è mappato il gene è la nota distrofia di Duchenne, quando verso la fine degli anni ‘80 si è scoperto che il gene mutato era quello per una proteina prima ignota e che dalla malattia è stata denominata distrofina. Tra le diverse forme di distrofie muscolari c’era la distrofia muscolare congenita di Ullrich, descritta dal medico tedesco Ullrich nella prima metà del 900, e la miopatia di Bethlem, descritta da dei medici olandesi negli anni ‘70.

Nel 1996 in Olanda, il team di genetisti in cui c’era il dottor Bethlem oramai in pensione cercano mutazioni del collagene VI e le trovano nei loro pazienti, pubblicando il lavoro su Nature Genetics. Nel 2001 il dottore neurologo Enrico Bertini di Roma dimostra che anche la distrofia muscolare di Ullrich è dovuta a mutazione del collagene VI. Emerge quindi che mutazioni differenti nei tre geni codificanti le catene del collagene VI causano patologie muscolari diverse, con un quadro molto variabile e differente di entità e progressione della malattia. Ciò è dovuto al fatto che nella Ullrich vi è un deficit molto marcato del collagene VI, mentre invece nella Bethlem il deficit è parziale.

Mi puoi dire qualcosa in più sulla Miosclerosi?

L’identificazione delle alterazioni a livello muscolare nei nostri topi privi di collagene VI ci aveva portato verso la fine degli anni 90 ad avviare una collaborazione molto intensa e proficua con il dottor Luciano Merlini, clinico neurologo degli ospedali Rizzoli di Bologna e grande esperto di queste malattie. Con il dottor Merlini e la sua collaboratrice Patrizia Sabatelli ci eravamo messi a studiare non solo i muscoli dei topi knockout ma anche da biopsie di pazienti con possibile deficit di collagene VI. Nonostante l’eterogeneità del quadro clinico, parecchio differente fra distrofia di Ullrich e miopatia di Bethlem, e nonostante la diversa entità della debolezza muscolare, in entrambe i pazienti presentano contratture e diverse alterazioni alle articolazioni, una delle caratteristiche più distintive di queste patologie. La lunga esperienza del dottor Merlini con vari pazienti affetti da malattie neuromuscolari lo portò ad identificarne alcuni con un quadro differente sia da Ullrich che da Bethlem e in cui il sintomo più marcato era la presenza di contratture molto estese e forte rigidità muscolare. Proprio queste ci spinsero a cercare se ci fossero mutazioni nei geni per il collagene VI, che vennero identificate grazie ad una collaborazione con il team di genetisti dell’università di Ferrara. La miosclerosi quindi, come dice il nome, presenta un quadro clinico caratterizzato da rigidità e contratture, e sembra molto più rara sia della Bethlem che della Ullrich.

Negli Stati Uniti cosa succedeva nel frattempo?

Niente, nessuno se ne era occupato prima degli anni 2000. Prima che il dottor Bertini identificasse la Distrofia di Ullrich nella mutazione del collagene VI, vi erano solo alcuni studi sulla miopatia di Bethlem da parte di pochi clinici, fra cui alcuni italiani. Tornando a quanto raccontavo prima, quando nel 1996 scopriamo che i nostri topi presentano una debolezza muscolare e il gruppo olandese identifica le mutazioni nei geni del collagene VI nei pazienti con miopatia di Bethlem, cercando nella bibliografia scientifica mi rendo conto che c’erano appunto alcuni clinici italiani che si occupavano di questa malattia, fra cui un neurologo di nome Luciano Merlini. Nel 1999 al congresso scientifico di Telethon conosco Patrizia Sabatelli e le chiedo se vuole studiare al microscopio elettronico i muscoli dei nostri topi. Chiedo a Patrizia se mi presenta questo dottor Merlini, lei mi porta subito da lui che quando mi vede mi squadra dalla testa ai piedi, iniziando a farmi un sacco di domande su questi topi, molto incuriosito e interessato. Da allora diventiamo grandi amici, e si è avviata una collaborazione intensa e molto costruttiva che dura da più di due decenni.

Dagli studi avviati con la Sabatelli, analizzando al microscopio elettronico i topi knockout per collagene VI, emerge una enorme sorpresa quasi incredibile, che poi ha portato a molti sviluppi successivi anche per gli studi sui pazienti. Infatti, anche se le immagini microscopiche dei muscoli dei topi non evidenziano alterazioni evidenti all’apparato contrattile, le cellule muscolari presentano numerose aree con delle specie di “buchi” che abbiamo subito compreso essere mitocondri dilatati e completamente alterati.

I mitocondri sono un poco come le centrali energetiche delle cellule, perché producono (sotto forma di una molecola chiamata ATP) l’energia necessaria per molti processi cellulari, e ovviamente nelle cellule muscolari sono fondamentali per fornire l’energia necessaria alla contrazione di tutti i diversi muscoli. La fortuna volle che al piano di sotto dell’edificio in cui lavoro c’è il Papà dei Mitocondri: il professor Paolo Bernardi. Quindi vado dall’amico Paolo (mio omonimo e spesso pure confuso con me, date le comuni iniziali) e gli chiedo se secondo lui sia possibile studiare la funzionalità dei mitocondri nei muscoli dei topi privi di collagene VI. Da lì iniziamo una serie di studi molto avvincenti e innovativi che ci portano a una serie di traguardi, identificando uno specifico difetto mitocondriale non solo nei topi ma anche nelle cellule dei pazienti Bethlem e Ullrich, i cui risultati vennero pubblicato nel 2003 sulla rivista Nature Genetics e negli anni successivi in diverse altre riviste scientifiche internazionali.

Grazie al supporto di Telethon, abbiamo quindi costruito una rete collaborativa fatta di competenze e ambiti complementari, che oltre a me ha coinvolto anche Merlini, Bernardi e altri ricercatori, per una serie di studi tutti italiani e svolti interamente in Italia. Con la supervisione del dottor Merlini, abbiamo condotto il primo trial clinico pilota in pazienti Ullrich/Bethlem, basato sull’uso della ciclosporina A per riattivare la disfunzione mitocondriale, che è poi proseguito da parte di Bernardi con lo studio di derivati non immunosoppressivi della ciclosporina. Il mio team si è invece concentrato sulla connessione fra deficit di collagene VI e disfunzioni alle cellule muscolari, allo scopo di chiarire i meccanismi molecolari sottostanti le alterazioni che avevamo identificato nelle cellule muscolari dei topi e dei pazienti. Questo ci ha portato ad un’altra sorpresa del tutto inattesa, identificando un ruolo chiave del meccanismo dell’autofagia nell’insorgenza delle alterazioni alle cellule muscolari, con un lavoro pubblicato nel 2010 sulla rivista Nature Medicine. L’aspetto interessante di questi risultati era che un deficit dell’autofagia, ovvero del processo di ‘pulizia’ delle cellule muscolari, è presente sia nei topi knockout che nei pazienti, e tale deficit è reversibile e può essere recuperato mediante diverse strategie mirate a riattivare l’autofagia, comportando un recupero della struttura e della forza nei topi privi di collagene VI.

Questo ci ha portato a un secondo trial clinico pilota nei pazienti Ullrich/Bethlem, sempre supervisionato da Merlini, basato su un approccio nutrizionale per riattivare l’autofagia, che ha dimostrato i benefici ed efficacia della riattivazione dell’autofagia, e i cui risultati sono stati pubblicati nel 2016.

Quindi la connessione tra disfunzione tra mitocondri e il deficit di collagene VI?

Non ancora è del tutto chiara. É come un puzzle, fatto di molti piccoli pezzi da identificare passo dopo passo, e sul quale stiamo lavorando attivamente.

Il collagene VI sta nella matrice extracellulare al di fuori delle cellule, importante per segnalare alle cellule una serie di effetti importanti perché la membrana di rivestimento delle cellule contiene delle proteine che funzionano da recettori specifici per varie molecole extracellulari. Questa connessione è molto complessa perché il collagene VI ha la funzione di regolare più processi cellulari, e a noi mancano ancora diversi tasselli di questo puzzle. 

Nel frattempo, come professore ordinario di Biologia Cellulare ormai da molti anni, riesco a costruire un bel team di ricerca, formato da diversi giovani molto motivati e molto appassionati. E’ grazie a loro che si sono potuti ottenere tanti risultati, in quanto questi risultati si possono raggiungere solo grazie a un gruppo affiatato e ben organizzato, in cui ciascuno dei giovani (e meno giovani…) svolge un ruolo importante.

Qual è il lavoro portato a termine o obiettivo raggiunto fino ad oggi di cui ti senti più soddisfatto?

Il primo naturalmente, risalente a ben 26 anni fa, nel 1998, quando abbiamo pubblicato lo studio che ci aveva portato a ottenere i topi knockout. Un traguardo che era solo l’inizio di una lunga storia che prosegue ancora oggi. Quel primo traguardo ci aveva richiesto quasi due anni di lavoro intenso, weekend compresi, ed è servito per tutto quello che è seguito dopo.

Raccontaci ora della spermidina.

La spermidina non è un farmaco, ma un cosiddetto ‘nutraceutico’ (definizione che identifica un prodotto naturale, a differenza di ‘farmaceutico’) e fa parte delle poliammine. È quindi una sostanza naturale, presente in varie piante e prodotta anche nel nostro corpo. Ad esempio c’è molta spermidina in alcuni cibi, come ad esempio nella soia, nel germe di grano e nei funghi, ed è utilizzata come integratore alimentare. Negli anni scorsi diversi studi hanno dimostrato che negli animali invertebrati la spermidina aumenta la longevità, grazie al suo effetto nel promuovere il meccanismo dell’autofagia. Ai dosaggi in cui viene assunta o utilizzata normalmente non sono riportati effetti collaterali negativi. Gli studi sugli uomini sono pochi, alcuni sul Parkinson per la perdita di memoria, uno sugli anziani per contrastare l’invecchiamento ed anche uno sull’alopecia. Si sta studiando la spermidina in vari contesti.

Noi attraverso i nostri studi sui topi con deficit di collagene VI avevamo osservato che si poteva spingere ad attivare l’autofagia mediante digiuno, un approccio ovviamente acuto ed impensabile per un trattamento prolungato. Di seguito abbiamo testato nei topi una dieta normocalorica ma a minore contenuto di proteine, ottenendo effetti benefici che hanno portato al trial clinico pilota nei pazienti. Nella prospettiva di sviluppare strategie in grado di attivare l’autofagia in modo fisiologico e senza possibili effetti collaterali, ci siamo poi focalizzati su sostanze nutraceutiche come la spermidina. Abbiamo studiato gli effetti della spermidina nei topi knockout, somministrata sia mediante iniezione che per via orale, cercando di identificare il dosaggio e tempi di trattamento più efficace. Mediante vari studi, abbiamo osservato che il trattamento attiva l’autofagia e migliora la struttura del muscolo, con una miglioramento nella struttura delle cellule muscolari. Nei nostri primi studi con spermidina l’effetto complessivo di questi trattamenti sulla forza muscolare non era però significativo. Abbiamo quindi condotto altri studi più a lungo termine, somministrando ai topi la spermidina per bocca a concentrazioni maggiori e per tempi più lunghi. Questi nuovi studi hanno dato ottimi risultati, con un marcato recupero della capacità funzionale dei topi knockout, e sono stati pubblicati in un lavoro recente nel 2023.      

Siamo fortemente convinti che seppure la terapia genica sia la sola in grado di potere effettivamente normalizzare un gene malato, l’identificazione dei processi cellulari affetti dal deficit genetico primario sia di grande rilevanza non solo per la comprensione dei meccanismi alla base della comparsa e della progressione della malattia ma anche per lo sviluppo di terapie efficaci. I nostri studi sui meccanismi cellulari e molecolari a valle del difetto genetico primario di collagene VI hanno permesso di identificare alcuni target per approcci terapeutici, e suggeriscono che strategie combinatorie con approcci e molecole differenti in grado di agire su diversi bersagli e processi coinvolti, quali i mitocondri e l’autofagia, possano essere di efficacia per un loro rapido trasferimento nel trattamento di queste malattie. In questa prospettiva, stiamo conducendo anche altri studi mirati ad identificare l’efficacia di un gran numero di farmaci, già in uso clinico per malattie differenti, allo scopo di aumentare la possibilità di successo per strategie terapeutiche combinatorie nelle distrofie legate al collagene VI.

Quali sono i nuovi traguardi del Laboratorio di Padova?

Dopo il Summit di San Sebastian, organizzato dalla fondazione spagnola Noelia, mi sono reso conto che nonostante oggi ci siano diversi neurologi e clinici interessati a queste patologie, pochi hanno il background di competenze di base della matrice extracellulare e del collagene VI che era invece presente in passato. Il ruolo del nostro team penso sia proprio questo: continuare ad andare avanti. Nonostante i risultati ottenuti in questi anni di lavoro, noi non ci fermiamo: vogliamo capire di più, vogliamo continuare ad aggiungere tasselli al puzzle, per arrivare a chiudere il gap tra collagene VI, membrana e processi intracellulari regolati da questa proteina.

In quanto professore biologo esperto del collagene VI della nostra commissione medico scientifica (non so se lo sapevi ma accettando questa intervista hai dato il consenso alla tua nomina nella CMS dell’associazione col6) vuoi dire qualcosa in merito? Suggerimenti ecc.

Grazie mille, accetto con piacere la nomina. Ci vediamo al prossimo raduno dell’Associazione Collagene VI Italia APS. Quanto a suggerimenti, vorrei solo aggiungere di cercare di fare sentire sempre di più la vostra voce come associazione, in particolare facendo sempre più rete con altre associazioni di pazienti e famiglie a livello internazionale.